I capelli in grappolo, il respiro oleoso dei sanpietrini.
Per ricoprirmi le carni una blusa nera.
Con gli intestini che regalano fuoco,
il fegato ad invocare piogge
la campanella suona, suona la campanella
corriamo in frotte allo spettacolo in prosa delle otto.
Falso e fasullo e malsana idea del ricopiare quel che è già morto.
Siparii sudario per quei vestiti stirati, profumati.
Fasulli.
La strada, perso il cappello in conventicole oziose.
Balzo sulle tavole dei vostri banchetti agirando la spada viva della parola,
contro il tuo vociare inetto, urlo
sporco di sugo
le camicie di lino dei tuttologi rivoltate sugli avambracci,
le sigarette oziose sull’asfalto molle fuori dagli uffici.
Le reclame ai bordi della strada,
i culi sodi,
i vestiti a fiori.
E calzature sempre fuori luogo.
Siamo in ginocchio, la fronte abbassata, i pixel dei cellulari le nostre vicinanze,
non te ne sei accorto dai palazzi gettano brioches
e banconote.
Le nostre gole a cavallo del borgo,
le bottiglie di vino scolate e ammucchiate nei balconcini sessanta per cinquanta,
dimmelo tu, filosofo, cosa sai della Svizzera, dei bordelli,
dimmelo tu cosa sai delle afriche,
la pangea risorgerà e ci terrà stretti in quell’abbraccio di carne che tu teorizzi e perdi.
Fosse comuni dei nostri liquidi, tubi, soltanto tubi per i nostri bisogni primari.
E il tabù del belpensiero, i fru fru dei buongiorno e quei grazie che ci fanno i tagli alle labbra
e al supermercato acquistiamo lucidabocche.
Meglio un fanculo.
Rabbia, la verga,
violenza, sussulto.
Un rombo, l’aereo, la lontananza,
distanze.
Dimmelo allora che te ne fai del tuo muso bello, della lingua capace, dei seni acerbi,
che te ne fai dei tuoi fianchi abusati,
della tua pelle
morta.
Ero pronto a intronarti nel mezzo del mio ventre,
farmi centauro supino, con la tua criniera e il vento.
Sbattono ancora le ali delle finestre e invocano i nostri voli.
Il mio no è vita,
strappo alle lenzuola quel che resta della notte,
dimmelo allora cos’è che ti trattiene immobile,
cos’è che ti aziona soltanto in sussulti,
dimmelo il perché dei tuoi balzi, accelerazioni e stop,
discese e salite le nostre lingue bianche,
non ci sono colori tra noi,
non c’è tempo,
tutto è perduto nella tua foto che smagrisce in bianco.
Tutto è perduto della tua giovane età,
perso cammino aggrappandomi alle mura,
baluardo soltanto il mio volto aguzzo,
i capelli arresi all’avidità dello smog e la fronte alta in guerra col cielo,
guarda il mio passo,
cercami per quelle vie,
trasudo
parola e piscio
e vedrai il sangue delle mie nocche
sulle porte delle vesti bianche
come un avvertimento per i boia incappucciati che suoneranno alla tua porta,
le organizzazioni del volontariato.
Lascio una scia luminosa,
le nostre belle notti,
che se m’accascio è perché sono ferito
ansimo vita, povero,
ignorante del tempo, avido in sguardi.
Il rintocco dei miei tacchi lucidi a inventare un ritmo nuovo,
la blusa nera a cancellare le impronte.
Poi la città,
i netturbini,
i sacchi neri per la morte del vespro.
Gli orologi rubati impignati sulle piazze,
bruciamo il tempo per cancellare le condotte regolari,
l’appuntamento,
il ritardo.
Dimmelo allora,
se tu fossi qui,
non avrei tempo per i discorsi. Svelerei il mio bianco, la pelle debole, preda io per i tuoi denti bianchi.
Dimmelo allora,
se tu fossi qui,
non servirebbero gabbie. Saremo eterni, nell’ansimare delle nostre piccole morti e poi ci gireremo dall’altra parte.
Prenderemo sonno, e non sarà per sempre.