Tu non ricordi quando ho indossato una camicia e per tutto il giorno ho pensato di incontrarti, avevo lasciato aperto l’ultimo bottone così se ti avvicinavi potevi chiuderlo tu e dirmi ora stai meglio. Non sarai mai mia madre e la tua saliva non servirà a pulirmi le guance quando di pomeriggio mangeremo dei coni gelato grandissimi soltanto per allontanare il tempo della tue partenze. E mentre i faggi perdono le foglie decideremo un giorno della settimana per andare al cinema, guarderemo film tristissimi e troveremo il coraggio di mangiare pop corn senza paura di fare rumore. Quando a dicembre farà freddo e ci stringeremo nelle spalle, su piazza della Moscova tirerà vento forte ci ripareremo sotto i portici di via Lovanio, tra i ristoranti di via San Marco invece penseremo all’ultima volta in cui abbiamo comprato un quotidiano e scenderò le scale di casa tua nell’ora in cui aprono le edicole. Tu mi guarderai negli occhi e mi dirai ci vediamo presto, poi passeranno ancora anni e finirò per allungare le notti in cerca di ricordi. Tutti questi futuri mi spaventano ti dico, il rischio è non vivere mai. Tu invece sei già donna, mentre io indosso magliette a righe e mi scopro timido, altre volte non mi vergogno per niente, ma è tutta colpa del vino, mi dici, dovresti smettere per un po’ e tornare a casa dei tuoi, in quel giardino dove crescono gli alberi. Là dove alla stazione dei treni i binari si assomigliano tutti, slegare una bicicletta e farsi guidare dal rosso dei semafori, non distinguere le vie per colpa della nebbia e leggere nella neve i versi di qualche studente, giovani poeti senza gloria di pagine e per muse le cosce sode delle adolescenti. Invitami a cena a casa tua stasera e dimmi cucina tu, svegliamoci così assonnati da scambiarci gli spazzolini, facciamo il caffè e poi dimentichiamoci di berlo, ti confesserò che se quando usciamo bevo soltanto acqua è perché a Milano il vino non è buono o costa troppo.
Foto: © Franco Fontana