Vuoi che cominci a citarti De André

Immergere le mani nell’acqua bollente, tenercele a lungo fino a non sentirle più. Se io. Fossi nel centro della strada a far luce alle auto con luminarie nascoste tra i capelli lunghissimi. Se tu. Con quelle labbra che mentre parli si fanno oblique, con le tue dita lunghe, le caviglie strette. Come quei due nella foto, studenti a passi di giambo tra i sampietrini, la paura lasciata nella casa dei genitori. Sarà che qui le strade sono tutte uguali, sarà che le salite non sanno rincorrere le discese, che i nostri motorini si perdono nelle ultime ore della notte. Non si conoscevano ancora. Dalla finestra di fronte lei salutava. Non salutava lui. Se loro. Sto imparando il linguaggio dei gesti per dare un senso alle mie presenze, lo sai che mi tengo in disparte, dice è il modo migliore per guardare, per essere guardati. Se io. Fossimo noi sotto gli alberi dei parchi della città, sorseggiassimo una birra, ci crederesti tu? Noi che ci circondiamo di adulti, che pieghiamo il dorso alla curiosità, portiamo tagli dappertutto, ma ridiamo sempre così che gli altri non se ne accorgono. Sui balconi a Palermo, sulle terrazze a Catania, l’odore dei limoni, dei gelsi, l’odore delle tue mani giunte, le processioni verdi di palme e nere di vergogne. Indossiamo mantelli senza saperlo, portiamo il nome della casata scritto sulle magliette, non ci credere a chi ti dice che non guarda il vestire, non credere nemmeno a chi ti dice verrò, puoi contarci, e poi non viene. Non credere alle mie parole quando ti invito a casa, troverai la porta chiusa, abituati all’invadenza e suona, diceva il libro che ti sarà aperto. E chi uscirà? Hai ancora paura? Possiamo chiamarla così o vuoi che cominci a citarti De André?

Foto: Trent Parke

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