Piove, e bagna e gocciola e ancora, rallentano automobili nei sottopassaggi e pozzanghere arcobaleno e petrolio. Senza una furia il vento denuda la magnolia dalle ultime foglie, resistono gli abeti, le madri portano sulle spalle figli dal caschetto nero: li vedi gli angeli quanta pipì. Pisciano sopra le nostre teste i santi senz’ali di quest’epoca scura. Chi può prende il remo e attraversa la fanghiglia, altri si trascinano dietro a borse zeppe di documenti e ordini precostituiti. Con la virtualità del denaro faremo i conti soltanto a sera, nel mezzo della notte incubi e pulsare di reni.
Ora spiegami il perché di questo nostro umore che cambia a seconda del cielo. Ruba il tempo per sentire il rumore del tabacco che brucia, il sigaro si fa più piccolo tra le dita, un respiro in meno, uno in più, che importa? Non si alleggerirà di un grammo il peso delle nostre anime.
E in questa città che conosce rare cortesie ci avvistavano sempre a sud nelle nostre giacche primaverili e fuori è l’inverno delle coscienze codarde, combattiamo il gelo con la grazia nel dispensare sguardi invadenti. Vogliamo sedurre per l’accettazione delle nostre primordialità. Se uso parole fuori moda potrai mai perdonarmi? E quando potrai perdona anche i miei capelli sparsi a nascondere l’aureola dei miei giorni antichi. L’antichità è pelle morta e cicatrice. Tutto si rinnova, invece, cellule e capelli. Pensaci, non sei più lo stesso quante occasioni per viverti altrimenti.
Se vuoi appiccicarmi i deliri di questo bianco mattino, ti regalerò fogli con balene disegnate e pacchetti di figurine ancora chiusi, che ne farai? Finché abbiamo vita, finché abbiamo incertezze non c’è motivo non caricarci sulla schiena le nostre sensibilità così giovani, così deboli, così imperfette. Vieni a dirmi che la perfezione non esiste e mai esisterà e io ti chiedo il perché della tua felicità. Di quegli occhi trasparenti, delle tue magliette a righe e del nero dei tuoi capelli che non fa altro che farti risplendere.
Come le supernove esploderai lontano dal mio cielo e mi ritroverò seduto su una veranda, la birra in mano e un cane, non sentirò nulla, soltanto le rondini, nella primavera della baruffa, del ballo scazonte sfrenato della bile, soltanto le rondini si fermeranno e le vespe distruggeranno il nido, esplodi in luce tu, nessun rumore, così lontana, così veloce, come un ricordo, come un bicchiere d’acqua. Per tornare a incontrarci bisogna prima allontanarci.
Foto: dalla rete.