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Tornare tra i pixel

Tornare tra i pixel come fossero casa. Ai temporali estivi i sogni degli arrivederci. Nei chiostri di rue d’Assas un monito dalla barba bianca: se ti disperdi a rincorrere fianchi stretti finirai per smarrire te stesso. Così sorprendermi delle vostre parole, le mie esperienze che perdono il possesso e diventano specchio per gli oggi degli altri. Con la promessa di dare sempre il nome al bello, dir meraviglioso alla purezza disperata di certi sguardi, io non me ne andrò, qui a far della vita disegno, a stendere lenzuola per nasconderci e illuminare la notte con la luce artificiale dei tablet. Sento bisbigli ovunque, assemblee dietro alle soglie di casa, tutti insieme a ricercare il senso, raccogliere il vetro da terra per farci calice e tornare ad assaporare il vino. La complessità dei nostri giorni, tutta la vulnerabilità delle nostre esistenze, giovani per sempre noi, poi, all’improvviso, già vecchi. A guardarci indietro, a tirarci la coda perché siamo animali. Non temere quando mi faccio scandalo, i tabù son per chi lascia le luci accese mentre dorme, il buio non spaventa chi tutto ha perso e tutto ancora insegue. E se ti parlo dei nostri ventri così vicini, delle tue orecchie piccole e della mia voce che si fa sussurro, no, non temere, sparirò presto. Vengo per liberarti o per farti schiava, a te l’intelligenza. La mia coscienza traballa, sul filo sottile e tra i panni stesi come i fringuelli, girare la testa a scatti per sorprendere il presente. C’è nello sguardo di chi scrive qualcosa di simile al campione dello sport, arrivare prima degli altri, anticipare il tempo e il gesto per poi contemplarlo e possederlo. Così nel vostro fare è l’immagine di quel che sono. Il voyeur, l’uomo che guarda. Perdonate la malinconia e perdonate ancora l’incapacità all’amore. Quel che tanto si ricerca, tanto allontana. Queste mie braccia magre, la cicatrice sull’occhio sinistro e i tagli sulle dita, che c’entra questo col dolore? Prendere il colpo e imparare, l’avversario si muove veloce, colpisce, lascialo stancare, le labbra gonfie, incapaci noi alla parola, aspettiamo il momento in questa danza muta che non è silenzio. E poi il velo cade, sarebbe più semplice dire che sono tempi duri per la felicità, poi guardi in alto e mi dici, è questione di sguardo lo sai? Perché la riva è così poetica quando non c’è nessuno? Non lo vedi che la spiaggia è di tutti? Sai che c’è? Sei così imperfetto che finisci per inseguirti, non sai stare solo, ricerchi ancora il mare.

© Benedetta Falugi, http://www.benedettafalugi.com

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A forza di colpe

Le maratone a rincorrere i draghi della finanza e il ritiro delle truppe in Afghanistan, molto ancora da fare e troppo poco da immaginare.

La tua curiosità nello spingersi altrove, tra i muri crivellati i nostri colpi di testa e le tue pose in cerca di equilibrio.

Hai mai domandato agli occhiali di mettere a fuoco i contorni delle nostre vite imperfette tra i viaggi in auto con le luci accese e i suoni blu delle volanti della polizia? Ci avevano detto ancora un altro anno, uno soltanto e vedrai che ci rialzeremo tutti in piedi e nessuno più si ricorderà dei girotondi, poi usciremo dalla dinamica del tu-io per allargarci in conoscenza. Non servirebbero a nulla le mie spiegazioni e l’uscita dai classici rituali dei petti gonfi, non capiresti, qui è tutta una guerra di proprietà privata e l’originalità concessa al vestire, vietata alla vita. Mentre dimentichiamo lo sguardo periferico nei film di successo per l’allenamento dei muscoli delle labbra.

E’ il calcio quel che salva i miei weekend, poi le tue foto e la mostruosità dei miei specchi, gli ombrelli lasciati chiusi quando fuori piove per sentirsi vivi e poter dire di esserlo. Le lune storte guardate dal basso, i buchi neri del mio cervello e di quella tristezza infinita che ti coglie in solitudine.

Tirare una riga sugli obiettivi non raggiunti e scardinare l’anima a forza di colpe.

I pesci rossi vivono fino a vent’anni e non servono a nulla se non ad addestrare all’amore: il cibo e la pulizia di una vasca, ecco tutto.

Non me ne volere se trascorro i momenti bui ad osservare dalla finestra le pozzanghere e il fango. Onde enormi invadono la spiaggia, quanti se n’è mangiati il mare, mi dici tu, ci tiene buoni d’estate e ci divora d’inverno. E i sassi consumati sotto i tuoi piedi sono fatti per le tasche, ci appesantiamo di vino e di pesce per affrontare quel che resta del giorno.

La mia pancia, che sia piatta o gonfia, ti dice come sto. Lascia perdere i miei occhi, le mie occhiaia nere e queste labbra che si aprono sempre a sproposito. E non parlarmi di sensibilità, ma cerca le crepe nel bel mezzo della mia carne: le chiamano intolleranze, ma è tutta colpa di questo inverno che non finisce mai e imbianca i capelli e disordina gli armadi.

Foto: James Nachtwey.

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