Quella sera m’ero detto che le fughe sono fatte apposta dai pittori per dare profondità agli sguardi. E allora ho deciso di inseguire. Di prendere il tempo del passo e farne esercizio quotidiano dell’andare. Con la paura del non essere accettati, il rifiuto senza compromessi storici delle boutique del centro e il tuo colore cammello a sfamare i deserti tra le carovane dell’Atm e il verso lungo dei tram. Abbiamo trovato le scale chiuse, il palazzo reale è per pochi mi sono detto, quando volevo salire i gradini per respirare altezze, disegnare le mappe degli spostamenti degli altri e fissare i punti di snodo del dopolavoro milanese. Per le ricerche di stile dei colori pastello e i profumi dolci delle turiste dell’est, poi il divieto dei cancelli per il cambio giovane delle prospettive: c’era una nave bianca nel cielo di piazza Duomo con le cravatte dei professionisti appese ai cartelli di stop, lo Spritz, il rock, quando la chitarra di David Knopfler ricamava i tramonti e non avevamo il tempo per trasformarli in ascolto. Mi sono detto che scrivere suona così strano ormai e che write sembra un nome di un attore di un cantante di un esploratore. Che vorrei portarti al mare, prendere il treno e guardare dal finestrino tutte quelle immagini che mi fanno pensare e poi dimenticare, come le citazioni di Benjamin e l’arte della distrazione. C’è un arazzo inconoscibile in Santa Maria Novella, che ci puoi passare ore a guardarlo e finisci per non capirci nulla, ma poi ci ritorni e lo trovi là, così abbagliante che non puoi andare oltre, che vorresti seguire il suo filo, uscire dal labirinto e riabbracciare Arianna, che i minotauri hanno la testa di toro, ma il corpo di uomo.