Fatta!
Fregata!
Sradicò il telefono infilzato tra la spalla e la mandibola.
Le mani erano impegnate nell’ impresa di dipingere un tramonto tra le unghie.
Quando il telefonò squillò Valentina dovette rassegnarsi e decise per un più adatto ed immediato rosso Coop.
La stanza odorava di mastice, lei lo inalava a pieni polmoni.
Le piaceva, sperava che le sue unghie non si asciugassero più.
Come l’odore della benzina, come l’incenso, come il letame dei campi appena concimati: quegli odori che ti penetrano nella pelle, ti scuotono, ti fanno sentire vivo o morto per un istante almeno, chissàpoiperché, poi scompaiono e ti lasciano quella sensazione di sonno, quell’abbiocco tipico dei post pranzi domenicali.
Fatta!
Fregata!
Pensò mentre prendeva a schiaffi l’aria sopra alle dita. Uccideva mosche fantasma.
Il telefono appoggiato sul letto sembrava guardarla, le diceva: “Che hai fatto?”.
Valentina prese la crema idratante, la sparpagliò tra le mani e cominciò ad accarezzarsi il corpo nudo. Lo faceva ogni giorno, due volte al giorno. I suoi movimenti erano quotidiani, sembrava che lavasse i piatti ma in realtà si accarezzava le gambe, si percorreva il contorno del seno.
Se un maschio in pubertà l’avesse spiata da dietro la porta sarebbe potuto morire d’infarto ma per lei quelle carezze erano come il passare uno spazzolino tra i denti, come fare pipì. Questioni di prospettive.
Pronta.
S’infilò le mutandine. Si guardò allo specchio: una canottiera aderente, il solito paio di jeans.
Scese dal letto.
Il palmo dei suoi piedi nudi lasciava un leggero alone sul parquet.
Valentina si chiuse nella camera oscura fai da te. Ritirò due foto appese a un filo per stendere.
La camera oscura era uno sgabuzzino che confinava con la sua stanza. Una volta, là dentro, c’erano un armadio a muro zuppo di vestiti smessi e una lavatrice.
Ora l’armadio a muro stava in discarica, i vestiti in caritas e la lavatrice in bagno, tra la tazza e il bidet. Ora in quella stanza c’erano un lavandino, liquidi da sviluppo, vaschette in plastica, un filo per stendere lungo due metri e centimetri e centimetri di rullini srotolati e foto in bianco e nero.
“Questa la regalo a lui. Com’è che si chiama? Non gliel’ho nemmeno chiesto. Non è troppo riuscita, i contorni potrebbero essere molto meglio. Posso dargliela però, così gli spiego tutto. Mica sono una maniaca, io, che fotografa per strada i ragazzi, poi gli scrive sulla mano il numero di telefono e la prima volta che li sente li invita a casa sua. Ma và, mica sono quel genere di persona, io.”
Valentina continuava a ripeterselo: “Io non sono così”.
“Io sono una fotografa, fa tutto parte di un mio percorso, di un mio progetto, glielo dirò, gli offrirò un caffè e lo manderò via, con educazione.”
Si sistemava i capelli allo specchio.
“La faccenda andava chiusa.”
Un ciuffo sparava a sinistra.
“E poi non era un brutto ragazzo, mi sembra. Moro, le spalle larghe. Quelle cuffie infilzate tra le orecchie però… c’è da dire che il volume era basso, non tamarrone che lo sente tutto il treno, no. Magari erano spente, le indossava per vezzo. Ma se è brutto? Lo mando via.”
Un ciuffo cadeva sul volto.
“Ma se è bello? Lo tengo qui… ci parlo e chissà. No?”
Prese un foulard rosso.
“Che c’è di male? Ho ventidue anni.”
Trasformò in coda i lunghi capelli, il foulard la faceva sapere d’Africa del nord.
Trillo.
“E’ già qui.”
Si annusò le ascelle. Corse al lavandino, alzò la gamba destra, non ci arrivava, i jeans la fasciavano troppo. Si sedette sulla tazza, mise i piedi nel bidet, prima uno e poi l’altro, e se li strofinò tra le mani.
S’infilò due Superga bianche. La porta la salutò col suo cigolio.