Abbiamo vinto il Festival di Sanremo, abbiamo visto il Festival di Sanremo.
La vista interdetta e i tetti di Francia, il tubo catodico non lascia spazio a visioni privilegiate, il nostro portafoglio piange e ci accontentiamo dell’essenziale, delle dirette scritte e della mancanza di immagini in diretta.
Guardavo la Champions su Rojadirecta, la telecronaca sudamericana e le vocali lunghe dopo i gol. Con la Juventus che espugnava Glasgow e le strisce bianco verdi del campo.
E intanto sui social network il dibattito sullo show degli show, quel Festival di Sanremo 2013 che avremmo dovuto guardare insieme, ma alla fine eravamo troppo stanchi e ognuno a casa sua: sushi d’asporto e polpette.
Il rituale delle entrate, le uscite a papera degli showman. E questa volta l’errore proprio sulla linea di porta, aspetti l’ovazione e l’urlo ti si ferma in gola, non sai che dire, non sai che fare e muovi la bocca cercando l’aria, e chiami tutti “ragazzi”, “amici”, “miei cari”. Non è così mon pote.
Non va così, che non è questione di ironia, di politica od altro. E’ questione di teatro, arte dal vero e palcoscenico, attore, pubblico.
Lo chiami palco, ma sai che in antichità era un’arena sotto la quale si consumavano cene e scopate sane e tradimenti e omicidi con vittime.
Se accetti la ribalta devi accettare il pubblico, mio caro.
Al di là del tuo valore, delle tue parole, dei tuoi proponimenti.
E non è vero che non hai detto nulla, non è vero che non ti hanno fatto parlare.
Tu lo sai, amico, che presentarsi sulla scena è portare un travestimento, un personaggio. E se i conduttori son protetti dall’amido delle cravatte e dai vestiti firmati, tu non lo sei, tu sei nudo proprio perché abbigliato. Truccato.
La testa calva e le mani in gesti. Tu hai già parlato. E il pubblico ride, e applaude, e fischia e se ne va. Il pubblico è vivo, e darei la vita perché continui ad esserlo. I calciatori sono fischiati, osannati, sbeffeggiati, oltraggiati, amati eppure inseguono una palla, hanno un ruolo preciso e lo sanno. E tu?
C’è stato bisogno che la moderazione prendesse di nuovo l’occhio di bue, il mezzo sorriso di un conduttore che vuole riportare tutto sui binari delle buone usanze, la moderazione della classe media. E invece no, questa volta no.
Le parole usate son state queste: “Vai pure avanti, vai avanti, dì quello che ti sei preparato, lo fai per il pubblico televisivo”. Quello che cambia canale, quello muto, zitto, quello consolante, in mutande, in cravatte.
E invece no, vivere la primavera è accettare il rischio dell’inverno. Nevicava, mio caro, potevi farti forza, improvvisare, dialogare oppure star zitto e tornare indietro. Potevi dire quel che avevi preparato oppure cambiare. Non sei anche tu uno di quelli che dice che senza pubblico non c’è teatro?
Perché hai fallito, questa volta, hai fallito. E quante volte è successo anche a me. La carta bianca può dare alla testa. Sai cosa c’è? Che l’ironia è una gran cosa, ma ha bisogno di necessità. E quella necessità era già scaduta perché solo pochi giorni prima avevi fatto lo stesso nell’inattaccabile condom televisivo. Lo sai che c’è un tempo per ogni cosa, passa tutto veloce qui, occorre adattarsi.
E non tiriamo in ballo la maleducazione, le fazioni politiche, le buone maniere e tutto il resto. Un buon teatrante è colui che conosce sé stesso, il testo, lo spazio, il palco e tiene conto del pubblico, tutto intero. E invece tu, o voi, userei il voi, avete fatto abitudine dei pasti caldi e delle sedie comode. Abitate con agio il canale 3 simbolo di una certa libertà di mano sinistra. Ma avete abusato, abusato, abusato. Non siete più necessari, miei cari. Tutto si è fatto routine, QUELLI CHE ci hanno stancato, QUELLI CHE Gaber e il potere dei più buoni.
Vi scrivo così perché al di fuori delle luci potremmo essere amici e dialogare come fanno i grandi, che guardandosi soli allo specchio la visione è parziale. Ma la vista dall’alto, dell’altro è quella che ancora una volta ci salva.
Non siete soli, siamo noi, siamo in tanti e non nascondiamoci più la notte.